Il mare vicino

Quello che descriverò è un sogno che ho fatto nella notte fra sabato e domenica, appena dopo un’incontro di terapia di gruppo, durante il quale sono stato massacrato (in senso buono) per benino. Non credo che sia un caso se ho sognato quello che ho sognato.

Io, mia madre e mio padre partiamo da casa per andare in un luogo in cui ci vuole portare mia madre. Partiamo dalla casa in cui vivo attualmente, a Castel Gandolfo. Poco dopo raggiungiamo una galleria, ed usciti da quest’ultima ecco la meraviglia: sotto di noi un’immensa pianura e poi il mare, bellissimo, luminoso. Mi incavolo con i miei (o forse solo con mia madre, non ricordo) perché non mi hanno mai mostrato che il mare era così vicino! Mia madre replica che lei aveva provato a portarmici qualche tempo addietro (è successo davvero, qualche anno fa, ma poco prima di arrivare a destinazione…le chiesi di tornare indietro) ma che io non c’ero voluto venire. Io dentro di me ricordo l’evento e penso che quando lei provò a portarmici non era certo così vicino. Corro sulla spiaggia, mi avvicino ingordo all’acqua. La tocco, ci gioco, rido come un bambino. Penso che avrei dovuto portarmi il costume, che visto che il mare è così vicino avrò mille occasioni per tornarci da solo. Nel frattempo mostro la mia gioia ed emozione incontenibile ai miei genitori che però mi prendono in giro e quando mi volto per parlare con loro…non ci sono. Posso sentire le loro voci, ma non ci sono. Mi incammino verso la destinazione. Un portone identico a quello della casa in cui vivo, incastrato nella roccia di un’alta montagna. Dietro il portone, una specie di “controporta” in vetro. Le due porte erano montate in modo tale da non poter essere agevolmente aperte contemporaneamente. Cerco di aprire il primo portone, ma non ci riesco…mi guardo intorno per capire se c’è una chiave nei paraggi. In quel frangente vedo mia madre entrare, come se si infilasse fra le sbarre del portone. Subito dopo riesce ad aprire la “controporta” ma dietro di essa c’è solo il la parete rocciosa. E vedo che mamma ha difficoltà a muoversi da lì. Un attimo dopo, senza che io possa rendermene conto, anche mio padre si infila nel primo portone rendendo l’uscita di mamma ancora più complessa e portando entrambi ad un claustrofobico incastro. Mi incavolo con mio padre per non aver avuto la sensibilità di notare che bastava attendere che mamma si liberasse, per entrare in tutta tranquillità e poi comincio a cercare qualcosa per liberarli. Penso molto a mia madre, poiché so che soffre di claustrofobia. Trovo un piede di porco nei dintorni…e penso di usarlo per scardinare il portone. La cosa però mi spaventa: ho paura che nell’operazione si possa frantumare la “controporta” che schiaccia mia madre alla roccia e che i pezzi di vetro possano ferirla. Mio padre allora interviene proponendo di usare una lampada ad olio, anch’essa lasciata non lontano da chissà chi, e di incendiare lo stretto luogo in cui si trovano. A suo dire così il fumo li avrebbe fatti tossire con tale forza da scardinare il portone dall’interno, io però lo prendo per matto e gli dico che non ho intenzione di dar loro fuoco.

Stacco.

In qualche modo siamo riusciti ad entrare dentro la montagna e stiamo attraversando un lungo cunicolo stretto e buio. Sul fondo si intravede una luce. Arriviamo in una sala più grande che ha l’aspetto delle fiere campionarie…

Mi pare di intravedere, in uno dei “box” di questa sala, una massaggiatrice…

Poi il risveglio.


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