Un minuscolo passo. Timbrato il biglietto, sono salito; ho dato un’occhiata intorno. Il pavimento era obliquo. I vagoni, visti dall’interno, creavano uno strano effetto simile a quello che si vede mettendo due specchi uno di fronte all’altro. Ho pensato alle gallerie, ho dato una controllata al battito del mio cuore. Sono sceso e sono rimasto impalato per un po’ davanti al treno, sperando di infilarmi all’ultimo secondo, in modo di non avere tempo per dei ripensamenti.
C’era una ragazza che fumava una sigaretta. Per un attimo ho pensato di andare da lei e dirle come stavano le cose con me, così forse mi sarei sentito meno solo, ma poi ho pensato che fosse un po’ bizzarro raccontare certe cose ad una perfetta estranea o che magari avrebbe pensato che ci volessi provare. In tutto ciò c’era una presenza che mi infastidiva. Mia madre. La prossima volta devo fare tutto da solo. Non devo avere una via di fuga, un’alternativa, né qualcuno che cerchi inutilmente di distrarmi, non avendo capito dopo 12 anni che in quei momenti non c’è nulla che mi possa distrarre e che la distrazione anzi aumenta l’ansia. Ha voluto dire la sua: “penso che stavolta hai fatto il passo più lungo della gam…” non le ho fatto finire la frase. “NO”, l’ho interrotta. Fare il passo più lungo della gamba significa fare qualcosa che non si + in grado di fare. Io invece sono in grado. E non voglio essere de-gradato proprio da chi dovrebbe incoraggiarmi. Checcazzo. In ogni caso ho fallito. Alla fine ho optato per tentare un’altra volta. Se fosse un videogioco guarderei quante vite mi rimangono, prima d’arrivare al livello col mostro finale.
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